Novecento

Novecento, secolo di contraddizioni. Novecento, era dei grandi totalitarismi. Novecento, il trionfo della democrazia. Novecento, dalla crisi dei valori alle più grandi conquiste sociali. Novecento, la sintesi di tutto ciò che l’uomo ha imparato nella sua breve ma intensa esistenza, al di là del bene e del male.

Tutti risero di Nietzsche quando il suo Zarathustra parlò di “eterno ritorno”: com’è possibile che il tempo non sia lineare e che si giunga continuamente al bivio del ritorno, che possiamo scegliere se ripercorrere il passato o se addentrarci in un nuovo futuro? Sembra assurdo questo eterno riproponimento dei fatti accaduti, ma il Novecento va al di là di ogni tipo di razionalità. Troviamo, infatti, nel XX secolo, un alternarsi di scoperte scientifiche, guerre, conquiste sociali e crimini contro l’umanità, in un continuo scomparire e manifestarsi che sembra giustificare proprio quel concetto di eterno ritorno.

L’Ottocento si era concluso con la rivoluzione tecnico-scientifica, con l’introduzione dell’energia elettrica nelle abitazioni, con il miglioramento delle condizioni igieniche e, per finire, con l’invenzione dell’automobile (Ford, 1898): tutto ciò aveva incrementato la fiducia nella scienza, cosicché i maggiori ricercatori del mondo incominciarono la loro lotta contro le malattie e le disfunzioni del corpo umano. Si arriva ad una grande conquista, il vaccino, una sorta di antidoto che garantisce l’immunità contro quelle malattie infettive che potrebbero risultare mortali. Ma, come si sa, gli scienziati inventano e l’uomo utilizza quelle scoperte nel bene e nel male: in un clima di grande positivismo subisce un notevole sviluppo l’industria bellica che, se da un lato è fonte di sicurezza per un paese che solo grazie al suo esercito può difendersi dalle aggressioni esterne, dall’altro favorisce le tensioni internazionali, mettendo in allarme gli Stati confinanti. Poi la catastrofe. Il 28 giugno del 1914 l’arciduca austriaco rimane vittima di un attentato terroristico a Sarajevo: l’Austria dichiara guerra alla Serbia. Ma la guerra non rimane a “due”, in quanto Germania, Francia, Russia e Inghilterra, sia per prestigio internazionale, sia perché membri rispettivamente della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa, intervengono: a poco a poco il conflitto diventa mondiale, tanto da coinvolgere Stati Uniti, Cina e Giappone.

Si passa, dunque, da una situazione di entusiasmo, di fiducia, ad una di stallo, caratterizzata dalla crisi di tutti i valori morali e sociali e dalla paralisi spirituale dell’uomo, dovuta al suo essere schiavo dei valori familiari, politici e religiosi (T. S. Eliot): il Novecento è proprio questo, è la fine di ogni certezza e l’inizio di ogni dilemma. L’Uomo era sorto (Positivismo), è morto (Grande Guerra) ma, come l’araba fenice, risorgerà dalle sue ceneri per essere ancora protagonista: e se la crisi economica del 1929 è stata un gravissimo colpo per le popolazioni povere, in essa l’uomo europeo ha trovato quella linfa vitale che gli ha permesso di ricominciare. È quindi il tempo delle grandi battaglie sociali: le donne vogliono la parità dei diritti, gli schiavi pretendono la libertà, le forze progressiste chiedono il suffragio universale. In ogni parte d’Europa, i movimenti operai combattono per migliorare le condizioni di vita della prole. I successi sono immediati: si va dall’aumento dei salari alla riduzione delle ore di lavoro ad otto, grazie all’opera della Terza Internazionale. Per quanto concerne il diritto di voto, mentre in Inghilterra già dal 1928, per le pressioni dei laburisti e del partito femminista, fu introdotto il suffragio universale, le donne italiane dovettero attendere il 1948 per votare. Ma cosa ha reso possibile questa svolta storica? Cosa ha dato all’uomo la forza di reagire?

La Grande Guerra aveva messo in crisi i sistemi democratici, ormai ritenuti insufficienti a garantire i diritti dei cittadini e l’incolumità degli Stati. L’alternativa alla democrazia fu un tipo di regime che rispecchiasse il fascismo italiano. Il fascismo, infatti, fu l’unica causa della rinascita dalla crisi sorta con la guerra: il nazionalismo, la forte carica ideologica e la sicurezza di appartenere ad una comunità, in cui la gerarchia non dipendeva dalle ricchezze ma dai meriti, furono “i calici della redenzione dai peccati di guerra” e “l’incipit per una nuova Europa”. La popolazione aveva un punto di riferimento, il Duce, credeva in lui e si fidava di lui: in Italia tutto ciò prese forma con la figura di Benito Mussolini, “l’uomo della provvidenza” per la Chiesa e per la popolazione, “il maestro” per Hitler, “il moderatore del Nazismo” per Chamberlain e Diderot. In ogni modo, quello italiano non fu un totalitarismo completo: Mussolini mise al centro del regime lo Stato e non il partito (semplice comprimario della monarchia Savoia), favorendo in questo modo il suo intervento diretto nei periodi di difficoltà economica (bonifiche, Stato-imprenditore).

Ma, ancora una volta, l’entusiasmo è destinato a svanire: il 30 gennaio 1933, l’ottantacinquenne colonnello Hindelburg chiede ad Adolf Hitler, leader del partito nazionalsocialista della Germania, di formare il governo. È l’inizio della fine. Il Kaiser della Germania vuole che gli ariani, la razza pura, dominino il mondo e che gli ebrei, popolo senza terra, ricco e quindi causa della decadenza europea, siano sterminati: nascono nuove tensioni internazionali, ma l’Europa non vuole una nuova guerra. Sebbene Francia e Inghilterra, col supporto di Mussolini, tentino di assecondare le richieste del Kaiser, quando Hitler il primo settembre 1939 invade la Polonia, la guerra diventa inevitabile.

L’uomo era ricaduto nella crisi esistenziale, quasi seguisse alla lettera quel principio di eterno ritorno che qualcuno pensava fosse solo il frutto della malattia mentale di Nietzsche. Caddero quei regimi totalitari che per più di vent’anni erano stati esaltati: gravi crimini contro l’umanità erano infatti stati commessi negli anni che precedettero la guerra. Hitler aveva deciso di portare a termine quel suo assurdo progetto di sterminio degli ebrei, coinvolgendo anche Benito Mussolini che, sempre sotto la minaccia dell’isolamento internazionale e dell’occupazione nazista dell’Alto Adige, non fu in grado di ribellarsi. Sei milioni di ebrei uccisi nelle camere a gas e usati come cavie per gli esperimenti scientifici furono l’emblema di un’umanità degenerata e di una follia universale. A completare il quadro resta la fissione nucleare: agosto 1945, gli USA, per concludere definitivamente il secondo conflitto mondiale, sganciarono due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Il mondo ammutolisce. Dio, quel Dio che ci ha creati, il Dio dei cristiani, degli ebrei, degli islamici, il Dio del mondo inorridisce di fronte all’ennesimo atto di follia dell’uomo, il più terribile. E quella fenice, risorta dalle ceneri della Grande Guerra, sprofonda nuovamente nell’oblio, percossa duramente dalla sua stessa volontà di potenza e dalla sua stessa pazzia: eppure essa non vuole morire, vuole risorgere ancora dalle sue fiamme millenarie, vuole dimenticare. Sceglie così la via del ritorno al razionalismo, alla civiltà, alla società democratica. Dopo la guerra, in quasi tutta Europa si diffondono i sistemi democratici basati su una Costituzione che tutela i diritti dei cittadini. Riesplode l’entusiasmo per la scienza: l’uomo ora combatte le malattie e i difetti di nascita, grazie alla scoperta del DNA. Si sente di nuovo protagonista della sua storia e vuole riscoprire la gioia di vivere: capisce di essere speciale e la Terra non gli basta più. Ecco che nel 1969 Armstrong calpesta il suolo della Luna. Alle grandi scoperte scientifiche e tecnlogiche (la più grande di sempre, forse, è il calcolatore elettronico) si affiancano le grandi conquiste politico-sociali: in Italia vengono indetti nel 1973 e nel 1976 due referendum validi per legalizzare l’aborto e il divorzio, in tutto il mondo sorgono moti studenteschi e di conquista dei diritti.

Ma la storia continua a ripetersi e il ventesimo secolo ha ancora molto da dare, specialmente in negativo: altre guerre, altre catastrofi. Si va dalla Guerra Fredda combattuta tra USA e URSS, alla Guerra del Golfo contro Saddam Hussein, alla Guerra del Vietnam e a quella dei Balcani. Pene alleviate con la caduta del muro di Berlino, il 9 novmebre 1989, a segnare la fine di un’epoca e la stanchezza del mondo, costretto ad essere schiavo di confini politici e di troppi interessi che ledono i diritti dei singoli individui, del popolo che ha voglia di vivere e non sprecare il breve tempo a disposizione con inutili conflitti.

Tante stragi, tante violenze, tante lacrime, un solo fine: il guadagno. Si, perché una guerra favorisce la vendita dell’artiglieria pesante, lo smaltimento dei rifiuti tossici e, a volte, la ripresa economica di un paese; perché una guerra cambia il peso internazionale di chi la vince e la sua economia. Perché la storia la scrive chi vince le guerre.

Il Novecento è proprio questo, libertà e schiavitù, fioritura culturale e crisi esistenziale, progressi scientifici e guerre: in un alternarsi di sentimenti e situazioni contrastanti si è concluso il secolo dell’incertezza, l’età delle forti passioni. Una domanda sorge spontanea: cosa ci riserverà il nuovo Millennio, incominciato con un’altra guerra, quella al terrorismo? Rischierà l’uomo di soccombere ancora sotto il peso dell’economia e delle speculazioni finanziarie? Quando tornerà a volare la fenice?

Fabrizio Celli, Roma 2004, revisionato 02/05/2011
il quarto stato
Il Quarto Stato - Giuseppe Pellizza da Volpedo (1901)